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LA DROGA DEL
 
CAPITALISMO
 
 
Il capitalismo è un sistema malato perché produce anzitutto per accumulare, non per soddisfare i bisogni sociali. In questo senso quando si parla di "consumismo" bisogna riferirsi solo all'aspetto più esteriore del fenomeno, non a quello essenziale. Il consumismo di massa esiste perché pochi imprenditori privati vogliono accumulare molto più di quanto l'azienda abbia bisogno per riprodursi, anche se oggi certe aziende hanno raggiunto dimensioni tali che per riprodursi necessitano di tanti capitali quanti nessun singolo imprenditore è in grado di disporre. Di qui la necessità di lavorare accumulando debiti colossali che si spera di poter coprire coll'intervento dello Stato o lasciandosi assorbire da aziende ancora più grandi. Non a caso la sovrapproduzione connessa alla miseria è una caratteristica tipica di questo sistema. In Occidente la miseria è relativamente poco visibile perché siamo riusciti a "esportarla" nei paesi del Terzo mondo, facendo pagare alle loro tasche il costo del nostro benessere.

Dunque la malattia che, da almeno mezzo millennio, ha intaccato la coscienza occidentale è quella dell'accumulazione, cioè del profitto per il profitto. Si tratta di una vera e propria "dipendenza" da una droga. Ne vanno esenti, ovviamente, quelli che vengono spogliati dei loro beni per pagare la "droga" degli altri, a meno che una qualche illusione borghese non riesca a convincerli che è bene rassegnarsi, vivere alla giornata, darsi al misticismo o alla malavita, ecc.: in questo caso bisognerebbe parlare di "effetti collaterali" al più generale fenomeno della "droga da profitto".

In un contesto del genere è impossibile non chiedersi a cosa possono servire le rivoluzioni socialiste. I più infatti danno per scontato che il sistema borghese sia immodificabile, al massimo sono disposti ad accettare l'idea di migliorarlo.

I fatti invece portano alla conclusione che il crollo del capitalismo è inevitabile, in quanto la sua sopravvivenza si regge unicamente sullo sfruttamento dei lavoratori (soprattutto quelli del Terzo mondo): il che -come ognuno può facilmente immaginare- non potrà durare in eterno. Se si parte da questo presupposto si comprende meglio l'utilità delle rivoluzioni socialiste. Esse servono appunto per accelerare il più possibile il crollo del capitalismo, impedendo che il capitalismo si rafforzi e che, nel suo crollo, coinvolga l'intera umanità. Ovvero esse servono per dimostrare che un'alternativa esiste e che il crollo non sarà la fine di "tutto".

Le rivoluzioni socialiste vanno fatte là dove vi è la necessità di farle, là dove le contraddizioni sono esplosive ed è altresì forte la consapevolezza e l'organizzazione politica delle masse. I tempi per queste rivoluzioni sono maturi da quando è nato il capitalismo: non c'è bisogno infatti di aspettare le recessioni, le depressioni o le crisi per capire che questo sistema ha una logica perversa, che lo porta a una progressiva disumanizzazione. Tuttavia, per capire il senso di tale logica e la necessità del suo superamento, occorre un paziente lavoro di sensibilizzazione, di persuasione, sulla base di esempi molto concreti. La realizzazione effettiva degli obiettivi rivoluzionari, poiché soprattutto dipende da fattori di tipo "soggettivo", deve tenere in grande considerazione la consapevolezza politica delle masse.

DOVE STIAMO ANDANDO?

Le tendenze che vanno emergendo nel mondo capitalistico sono le seguenti:

  1. privatizzazione progressiva dell'economia, garantendo autogestione, decentramento ecc., ma senza mettere in discussione i monopoli e i rapporti capitalistici. Si vuole una razionalizzazione del sistema, e le forze politiche che sembrano più adatte a tale scopo sono quelle riformiste di "sinistra";
  2. rafforzamento dell'esecutivo, cioè dello Stato poliziesco-militare, ivi incluso il presidenzialismo governativo, riducendo il peso della partitocrazia, ovvero convogliando lottizzazioni e clientele verso un obiettivo strategico comune;
  3. coordinamento a livello internazionale della repressione contro i lavoratori, sia che essa avvenga all'interno dei singoli Stati capitalisti, sia che avvenga nel rapporto di questi Stati col Terzo Mondo. L'imperialismo cioè si va "politicizzando", cioè va assumendo una connotazione politico-militare più funzionale alla riproduzione del capitale.

Come contrastare queste tendenze?

  1. socializzare l'economia, non limitandosi semplicemente a privatizzarla. Autogestione e decentramento devono essere effettivi, a disposizione di tutti i cittadini;
  2. l'esecutivo va rafforzato a livello locale, dando potere reale ai lavoratori e riducendo quello statale;
  3. l'integrazione mondiale comporta che i problemi debbano essere affrontati in maniera mondiale, ma questo significa: 
    a) che i lavoratori devono acquisire una coscienza universale del loro sfruttamento, poiché l'imperialismo non può essere combattuto soltanto con una lotta nazionale;
    b) che il banco di prova della lotta universale resta quello locale, regionale e nazionale, al fine di dare la maggiore concretezza possibile al movimento operaio mondiale.

Se l'integrazione europea non si concilia con il decentramento e l'autogestione a livello locale, gli europei saranno costretti a rinunciare all'idea di nazione per trovarsi poi a combattere con un'idea di "sovranazione" ancora più pericolosa.

Da notare che le Leghe vogliono creare un conflitto tra centro e periferia, portando la periferia a diventare centro di se stessa. Apparentemente questo discorso potrebbe essere democratico. In realtà, esse vogliono riprodurre nel nuovo centro gli stessi meccanismi di sfruttamento e di oppressione che il vecchio centro sosteneva. La differenza sta che nel nuovo centro lo sfruttamento sarà più intensivo, più funzionale. Le Leghe in questo senso rappresentano la "nuova destra".

PER UNA SOCIETÀ AUTOGESTITA

Le due guerre mondiali sembravano essere servite a una parte dell'umanità per rifiutare il sistema capitalistico. Oggi invece questa scelta è stata rimessa in discussione, al punto che l'autodistruzione del socialismo di stato viene utilizzata, da certe forze politiche, come pretesto per tornare al capitalismo tout-court o comunque per considerarlo come l'unica via possibile di sviluppo.

Cosa dobbiamo pensare? Che l'esigenza del socialismo si fa più sentire solo nei momenti più drammatici della storia, quando appare evidente che le soluzioni offerte dal "passato" non sono più credibili? È possibile che la fine della tensione bellica debba comportare, ogni volta, la rinascita delle "illusioni"? Certo è che l'esigenza dell'odierno revival capitalistico, nell'est-europeo, si fa più sentire in quelle nazioni che nel passato hanno "provato", più o meno intensamente, la dinamica della società borghese. Potrebbe essere il contrario, in quanto solo chi ha sperimentato sino in fondo gli orrori del capitalismo può desiderarne la liberazione totale e definitiva. Il fatto è però che l'esperienza prolungata dello stile di vita borghese (anche se soltanto subìto) ottunde la mente, infiacchisce la volontà, paralizza l'azione rivoluzionaria. Non a caso la nazione che per prima ha smantellato il socialismo di stato, abbracciando in fretta il capitalismo, è stata la ex-RDT.

Pare proprio una legge storica: è possibile superare il capitalismo nel momento in cui esso è "giovane", facendo leva sull'esigenza non di salvaguardare il passato così com'è, ma di trasformarlo senza distruggerlo. In fondo il socialismo non è altro che una trasformazione delle società pre-capitalistiche sulla base della scienza e della tecnologia capitalistica. Un capitalismo troppo avanzato impedisce la realizzazione del socialismo: perché ciò avvenga occorre da un lato che la crisi del capitalismo sia ai massimi livelli, e dall'altro che esistano forze sociali dotate di grandi energie (il che, nell'ambito del capitalismo maturo, sembra sempre meno possibile). Le speranze di realizzare una transizione al socialismo tendono sempre più a diminuire in Occidente, benché sia quanto mai evidente, sul piano dell'analisi economica oggettiva, che il capitalismo non abbia futuro. È sul versante della "soggettività" che la resistenza anti-capitalistica è quanto mai deficitaria (proprio quel versante che il capitalismo sviluppa al massimo!). Ciò significa che per superare il capitalismo occorre che gli uomini vivano un'esperienza collettiva organizzata in cui l'individualità sia di secondaria importanza.

Un benessere ad oltranza, pagato dalla grandissima miseria della maggioranza della popolazione mondiale, è un malessere che inquina le coscienze e tutto l'organismo.

IL FUTURO DEL CAPITALISMO

L’evoluzione storica dell’Europa occidentale (di cui gli USA rappresentano il punto culminante) non può essere considerata positivamente (e le due guerre mondiali, per restare al nostro secolo, lo stanno a dimostrare), poiché ai problemi e alle contraddizioni che di volta in volta sono emerse in questi ultimi 5 secoli, sono state date soluzioni sempre più lontane dalla democrazia sociale.

Certo, dopo la II guerra mondiale l’Europa e gli USA non hanno conosciuto sanguinose guerre interne, ma questo non significa che in quest’ultimo mezzo secolo essi abbiano saputo porre delle basi sicure perché non possa accadere una nuova guerra mondiale.

La pace, normalmente, è una cosa scontata, dopo un conflitto sanguinoso: ciò che non è scontata è la volontà di costruire, durante il periodo di pace, dei rapporti così democratici da rendere impossibile o almeno improbabile un nuovo sanguinoso conflitto mondiale.

L’occidente, in quest’ultimo mezzo secolo, non ha fatto un minimo passo in direzione del superamento delle contraddizioni capitalistiche. Laddove ha pensato di fare dei passi avanti (attraverso le ristrutturazioni tecnologiche, le nuove scoperte scientifiche, le grandi fusioni di imprese e capitali...), si sono avute delle ricadute sociali sempre più gravi (disoccupazione di massa, criminalità crescente...).

Questo senza considerare che il rapporto tra Occidente e Terzo Mondo non ha praticamente nulla di democratico, da almeno 500 anni. A partire dalla conquista dell’America l’Occidente ha sempre scaricato il peso delle proprie contraddizioni sulle spalle del Terzo Mondo.

Se l’umanità avrà un futuro, non sarà certo l’Occidente capitalistico a guidarlo.

IL FUTURO DELL'IMPERIALISMO

Con sicurezza noi possiamo affermare una cosa: che l'individualismo (cui è connessa la proprietà privata) ha potuto fino ad oggi sopravvivere in Occidente soltanto perché esso ha sempre trovato, di fronte a sé, terre da conquistare e popoli da soggiogare.

Oggi però l'imperialismo statunitense, euroccidentale e nipponico hanno come principale preoccupazione quella di salvaguardare se stessi così come sono, senza possibilità ulteriori di espansione. Il problema cioè è diventato quello di come autoriprodursi sfruttando al meglio ciò di cui in questo momento si dispone, nella consapevolezza che in futuro la resistenza (politica e economica) dei paesi neo-coloniali tenderà ad aumentare.

Il paradosso principale dei sistemi individualistici, basati sulla proprietà privata e quindi sull'antagonismo di classe, è quello di apparire particolarmente efficienti, produttivi e dinamici, mentre in realtà essi sono parassitari (perché dipendono dallo sfruttamento del lavoro e delle risorse altrui), statici (perché non vogliono assolutamente cambiare stile di vita, anzi fanno di tutto per conservarlo) e autodistruttivi (perché minano alle fondamenta il rapporto dell'uomo con la natura e con se stesso).

Un imperialismo "politico-militare" è necessario al capitalismo mondiale proprio al fine di conservare lo status quo, non tanto per estendersi geograficamente. È dalla Ia guerra mondiale che il capitalismo non ha più la possibilità di occupare nuovi territori da colonizzare. L'occupazione può essere solo a livello economico-commerciale (ad es. attraverso le multinazionali o il debito internazionale).

Il crollo del socialismo reale può anche svolgere la funzione di ritardare la creazione dell'imperialismo "politico-militare" (guidato dagli USA), poiché i nuovi mercati che si aprono possono servire come valvola di sfogo all'espansione del capitale, ma se l'Occidente non decide d'incamminarsi sulla via del socialismo democratico, ad un certo punto dovrà per forza riproporsi l'esigenza di controllare con sicurezza il proprio impero (vedi ad es. la guerra contro l'Irak, vera cartina di tornasole dello stretto legame esistente tra imperialismo e risorsa petrolifera, che di tutte quelle che garantiscono il dominio mondiale è la decisiva).

Infatti i Paesi ex-comunisti, che accettino il socialismo autogestito o il capitalismo, è difficile che permettano all'Occidente di fare affari sui loro territori senza vantaggi reciproci, ovvero di essere trasformati in una nuova "periferia" della metropoli occidentale. La cultura della "alternativa" (al modello occidentale) qui è abbastanza forte perché ciò non debba accadere.

In ogni caso l'esigenza dell'imperialismo politico-militare sarà determinata non tanto o non solo dalla decisione dei Paesi ex-comunisti di restare liberi e indipendenti, ma anche e soprattutto dai tentativi del Terzo mondo di emanciparsi economicamente dalla dipendenza neo-coloniale che da secoli lo affligge.

È probabile, in tal senso, che quando l'emancipazione economica del Terzo mondo si farà strada con più sicurezza di quanto fino ad oggi è accaduto, dai Paesi ex-comunisti si guarderà all'Occidente con maggior disincanto, in quanto ci si renderà meglio conto che tanta parte del nostro benessere si regge sullo sfruttamento di una buona fetta del genere umano. Ciò che oggi non può ovviamente apparire nei media borghesi (stenta persino ad apparire nella pubblicistica di sinistra!). Il fatto è che non si vuole assolutamente ammettere (soprattutto adesso che il cosiddetto "impero del male" è crollato) quanto i principi democratici dell'Occidente siano in realtà una colossale truffa ai danni dell'umanità.

La stessa sinistra occidentale ritiene che la democrazia borghese sia già "compiuta" sul piano politico-istituzionale, e che gli unici ritocchi vadano fatti in campo socio-economico, senza per questo dover parlare di "collettivismo" o di "socializzazione (non statalizzazione) dei mezzi produttivi"! Il socialismo non deve essere altro, per questa sinistra, che la "forma suprema" di razionalizzazione del capitale...

L'INTERDIPENDENZA GLOBALE E LOCALE

Ormai non c'è più nessun problema che l'umanità possa pensare di risolvere restando divisa in Stati e nazioni. Rifiutare l'interdipendenza significa condannarsi al sottosviluppo. Ma accettarla significa che gli enti, i soggetti in causa devono porsi in modo paritetico. Non c'è vera interdipendenza senza uguaglianza.

Oggi si è capito che l'umanità è non solo caratterizzata da discontinuità e diversità (si pensi p.es. alle diverse formazioni sociali), ma anche da integrità e unicità (nel senso ad es. che le contraddizioni tra le varie formazioni devono svilupparsi all'interno dell'unità globale e strutturale della società umana).

Dobbiamo, in sostanza, stare uniti (e lottare per questa unità) nella consapevolezza delle diversità che ci caratterizzano (e che possono anche dividerci). Il rifiuto di questa necessità, oggi, coi mezzi bellici che abbiamo a disposizione, può portare la civiltà alla barbarie.

La formula dialettica dell'unità e della lotta dei contrari è familiare al marxismo. In questo momento la nuova mentalità sta cercando di ridimensionare la valorizzazione unilaterale del momento della "lotta" a vantaggio di quello dell'"unità". La globalità del mondo è consolidata dall'interdipendenza dei suoi elementi, che va aumentando di continuo.

La diversità non è un ostacolo allo sviluppo, ma anzi un suo fattore propulsivo. Ora però occorre capire che il "potere" (di decidere) va diviso in parti uguali, altrimenti l'unità ricercata sarà soltanto funzionale agli interessi dei Paesi più forti e, in questi Paesi, soprattutto alle classi più forti.

Interdipendenza significa mettersi al servizio dei bisogni dell'intera umanità. Perché questo si realizzi dev'essere la stessa umanità (e non poche nazioni) a interpretare la natura di tali bisogni, facendosi garante della giusta modalità per soddisfarli.

Oltre a ciò bisogna affermare che, per essere efficace, democratica, umanistica, l'interdipendenza, su scala mondiale, deve procedere in modo parallelo all'interdipendenza su scala locale. Nel senso cioè che quanto più si afferma una coscienza e una prassi universale delle cose (a livello economico, sociale, politico, culturale...), tanto più gli uomini devono sentirsi padroni dello spazio locale del loro habitat, altrimenti avranno la percezione d'essere dominati da meccanismi infinitamente più grandi di loro, del tutto incontrollabili.

Soltanto attraverso la gestione diretta e locale dei nostri bisogni, potremo evitare di fare discorsi astratti sull'interdipendenza universale. È solo nell'ambito locale che si può verificare il grado di maturità sociale, culturale e politica delle masse e dei singoli individui. Quel politico che rinunciasse all'impegno locale per un impegno nazionale, sovranazionale o addirittura universale sarebbe destinato, inevitabilmente, all'astrattezza, alla demagogia, anche se gli strumenti a sua disposizione potrebbero artificialmente ridurgli il tempo e lo spazio come più desidera. La simulazione non solo non può mai riprodurre fedelmente la realtà, in quanto la libertà umana può essere espressa solo da se stessa, ma, per essere verosimile, deve anche porsi continuamente al servizio della realtà, nel senso che dev'essere la realtà (sociale in primo luogo) a decidere il significato e le modalità d'uso della simulazione.

L'impegno universale dev'essere sempre e comunque un riflesso dell'impegno locale.

LA MIMESI DEL SOCIALISMO

Ancora l'Occidente non ha sperimentato, dal punto di vista borghese, la mimesi del socialismo. Ancora l'Occidente, quale sfera geo-politica, globalmente intesa, non ha optato per un tipo di socialismo che gli permetta di restare capitalistico. Tuttavia, il momento di riconoscere il grande valore del socialismo si sta imponendo anche in Occidente.

Il socialismo infatti è un'esigenza vitale dell'umanità, non è un'elaborazione intellettuale fatta a tavolino. Anche gli uomini di duemila anni fa, seppure con minore chiarezza di oggi, possono aver desiderato un sistema sociale in cui la proprietà delle cose fosse comune, il lavoro equamente retribuito ecc.

In Europa centrorientale hanno capito che una certa forma di socialismo -quella amministrata dall'alto- è fallita: il volontarismo delle masse poteva soltanto posticiparne il momento, ma non impedirlo. Ora i comunisti dell'est devono capire che non è sbagliata l'idea in sé del socialismo. Gli uomini possono anche servirsi di questa idea per affermare un loro potere personale, ma l'idea resta, il loro potere no.

I comunisti dell'est-europeo hanno più probabilità di noi di creare un socialismo democratico, semplicemente perché essi hanno ancora degli "ideali politici". L'Occidente, invece, da tempo non ha più ideali: l'unica preoccupazione che ha è quella di salvaguardare su scala mondiale il profitto della borghesia. A tale scopo, anche il socialismo può essere utilizzato: naturalmente non quello democratico e autogestito, ma quello della "miseria". In futuro avremo il "socialismo della miseria" per i più, e il "capitalismo del privilegio" per pochi eletti. Questa sarà la situazione appena il Terzo mondo alzerà la testa.

In Occidente infatti la popolazione, abituata al consumismo di massa, non si adeguerà all'austerity, per cui insorgerà. Di qui la repressione e la conseguente introduzione di elementi di socialismo. Ogni volta che il movimento operaio si dimostra tenace e combattivo, il regime borghese si serve del socialismo per controllare la protesta in maniera capillare. Ora che tale movimento è debole, è giunto il momento, per la borghesia, di realizzare il proprio socialismo in grande stile, prima che il movimento operaio si risvegli sulla scia dei prossimi sommovimenti nel Terzo mondo. Senza concedere nulla a nessuno, la borghesia è pronta a realizzare in Occidente il proprio socialismo, per controllare al meglio l'intera società. Anche in Europa sarà così: se gli operai italiani entreranno in sciopero o protesteranno per questa svolta autoritaria, verranno puniti non dalla propria polizia, ma da quella francese o tedesca. La nostra invece andrà a reprimere gli operai spagnoli o portoghesi. Lo "spirito di Maastricht" sarà anche questo?

INDIVIDUALISMO E LIBERTÀ

Gli uomini devono combattere il principio individualistico secondo cui il singolo può porsi anche contro gli interessi della collettività, se questo può servire alla massima realizzazione della sua libertà personale.

È assolutamente falso che la massima valorizzazione della libertà personale possa avvenire contro gli interessi della collettività.

Gli esseri umani dovrebbero capire che anche quando la collettività si trova a vivere momenti di stasi, di crisi, o addirittura di decadenza, l’unico vero modo per uscirne non è mai quello di affermare il primato del singolo.

Se la collettività è in crisi, essa deve trovare in se stessa la forza di superarsi, altrimenti ogni altra soluzione sarà falsa e non farà che peggiorare le cose.

Non si può legare il concetto di libertà personale al primato del singolo sulla collettività: in tal modo si afferma il concetto di arbitrio. Né si può pensare che la proprietà personale, che garantisce la libertà, possa precludere la necessità che ognuno abbia la sua proprietà.

Se tutti devono avere la loro proprietà, per potersi sentire liberi, allora la proprietà non può essere una realtà per alcuni e una possibilità per altri. O è una realtà di tutti, oppure la libertà predicata dai pochi proprietari è falsa.

Se il singolo vuole emergere da una collettività in decadenza, deve comunque farlo per affermare i princìpi del collettivismo, gli interessi del bene comune.

LIBERTÀ E LIBERO ARBITRIO

Libero arbitrio è la facoltà di scegliere tra bene e male (facoltà che è ovviamente relativa alle circostanze storiche, sociali, ambientali ecc. Quanto più esse sono negative, tanto più difficile sarà scegliere il bene, benché al di là di un certo livello di sopportazione del male nessun essere umano possa andare).

La libertà invece è l’esperienza del bene che si è, più o meno coscientemente, scelto. Cioè è il tentativo di restare coerenti con la decisione presa.

L’ideale sarebbe che libero arbitrio e libertà coincidessero perfettamente, cioè che nell’uso del libero arbitrio non vi fosse il problema di porsi dei limiti, nel timore di oltrepassare quelli che portano a un’emancipazione negativa.

Tuttavia, nell’esistenza umana un caso del genere non si verifica mai: neppure nei bambini ancora inconsapevoli, o nei pazzi, che la coscienza l’hanno persa, poiché in questi casi la società è comunque retta da persone adulte, d’intelligenza normale.

L’essere umano, eticamente determinato, è costretto a porsi sempre dei limiti, che cerca, in condizioni normali d’esistenza, di non superare. Deve farlo proprio perché le generazioni precedenti, avendo vissuto delle esperienze negative, in qualche modo lo costringono. La storia è il processo di intere generazioni, una responsabile dell’altra e tutte insieme responsabili di ciascuna.

Purtroppo l’essere umano nasce col peso del passato storico e deve fare in modo che tale peso sia il più leggero possibile per le generazioni future. Leggero dal punto di vista della serietà etica, non necessariamente da quello delle realizzazioni tecniche.

Se la sua schiena cede sotto il peso delle contraddizioni passate, la determinazione etica diminuisce, diventa normale ciò che prima non lo era, le circostanze diventano sempre più difficili da sopportare...

LIBERTÀ E RESPONSABILITÀ MORALE

Che cos’è la storia se non il tentativo di sperimentare tutte le modalità possibili della libertà umana per poi aiutare l’uomo a rendersi conto che la modalità migliore è quella più semplice, più naturale, quella dove l’interesse del singolo acquista un proprio significato solo nell’interesse della collettività?

La storia dell’uomo è la storia di numerosi tentativi illusori, i cui fallimenti hanno comportato conseguenze tragiche anche su chi si è limitato a subire passivamente quei tentativi, cioè anche su chi li aveva trascurati o sottovalutati, nella convinzione che il loro fallimento sarebbe stato più o meno immediato o comunque circoscritto nei suoi effetti negativi.

Il tribunale della storia non può assolvere nessuno, se non i bambini che ancora non hanno coscienza o i pazzi che non intendono o i cerebrolesi.

Tutti gli esseri umani sono responsabili, a vari livelli, delle azioni che compiono. Chi ha omesso d’intervenire a favore del bene pubblico, nella convinzione che la sua iniziativa sarebbe risultata inutile, è parzialmente responsabile dei tentativi fallimentari di chi ha condotto la collettività al proprio disastro.

Nessuno può considerarsi completamente innocente. È bene che lo sappiano i futuri carcerieri e carcerati, torturatori e torturati, assassini e assassinati... Se tutti si rendessero conto di questa elementare verità, non potrebbe sussistere alcuna forma di vendetta o ritorsione da parte della parte lesa o di chi è sopravvissuto al fallimento dei tentativi egemonici basati sulla violenza.

Di fronte ai disastri dell’umanità (o di una sua parte), che sono periodici e sempre più gravi, l’atteggiamento migliore sarebbe quello dell’autocritica collettiva, della riconciliazione e della volontà positiva di riedificare la società su basi rinnovate.

Ma per poter far questo bisogna essere sinceri e onesti sino in fondo, con se stessi e nei confronti degli altri. È questo il prezzo più grande che gli uomini di “cattiva volontà” devono pagare per poter ricominciare veramente da capo.

UNA FILOSOFIA PER LA VITA

Ogni uomo si porta con sé delle contraddizioni che gli ricordano continuamente i suoi limiti. Occorre accettarle per quello che sono, perché questo è il modo migliore di non apparire diversi da quello che si è.

Infatti, chi cerca con ogni mezzo e modo di mascherarle, spesso cade nel ridicolo, oppure finisce col compiere cose ancora più insensate.

L’importante ovviamente è non farsi scudo di queste debolezze per non assumersi alcuna responsabilità. Gli eccessi, in un senso o nell’altro, sono comunque dannosi.

Occorre abituarsi a convivere con situazioni in cui il bene e il male non sono nettamente separati, ma continuamente mescolati. In tal modo si è costretti a una perenne vigilanza e a non dare mai nulla per scontato.

In fondo cos’è la virtù se non la capacità di scoprire e riscoprire, senza sosta, le tracce del bene in una pista battuta anche dal male?